lunedì 28 ottobre 2013

Agricoltura biodinamica

Coltivazione biodinamica, due parole che implicano tutto un modo di vivere, osservare e lavorare la terra. Il suo scopo non è di lasciar fare alla natura ma di fare oltre la natura, cioè di aiutare la natura per ottenere una terra sempre più fertile, della quale possano beneficiare anche le generazioni future, e alimenti vivi di qualità piena che nutrano l'uomo e gli diano salute. Coltivare biodinamicamente non vuol dire applicare in modo meccanico un metodo fisso. Piuttosto si può parlare di un indirizzo per il nostro pensare e agire, che poi svilupperemo secondo le condizioni e i problemi che incontreremo sulla nostra terra.

QUANDO NASCE LA BIODINAMICA?
I principi su cui si fonda la biodinamica furono formulati dall'austriaco Rudolf Steiner, il fondatore dell'antroposofia, una concezione dell'uomo e del mondo che nel primo quarto di questo secolo aveva portato un rinnovamento fertile nel campo della medicina, della pedagogia, dell'arte e della scienza in genere acquistando numerosi adepti in tutto il mondo occidentale.

L'agricoltura fu l'ultimo settore cui Steiner si dedicò prima di morire e lo fece su richiesta di alcuni agricoltori che vedevano con preoccupazione i primi segni di degenerazione e debolezza che accompagnavano l'applicazione dei moderni metodi di coltivazione e in particolar modo il crescente uso di concime chimico. A Koberwitz, nel 1924, Steiner tenne 8 lezioni per agricoltori dove il tema centrale era la salute della terra e il mantenimento e l'accrescimento della fertilità per migliorare la qualità degli alimenti destinati a nutrire l'uomo. Nell'indicarci la via verso una conoscenza ampliata del vivente e le sue manifestazioni Steiner mostra lo stesso spirito usato da Goethe nei suoi scritti di scienze naturali di cui Steiner del resto era stato un grande studioso.

Il corso è pieno di consigli partici, in parte molto dettagliati e in parte appena accennati. Perciò si può dire che esso non presenta un metodo pronto ma che le grandi linee sono state tracciate. Il punto più compiutamente trattato riguarda la preparazione di un concime di massimo rendimento. Compostare e usare i preparati sono due momenti fondamentali di questo processo. Anche le indicazioni date da Steiner per la lotta contro le malattie e i parassiti acquisterà probabilmente sempre più importanza.

In tutti i paesi occidentali c'è un piccolo numero di agricoltori (sta però aumentando) che sentono la responsabilità di dare una terra fertile e sana in eredità alle generazioni future e capiscono l'importanza di alimenti sani per la salute dell'uomo.

I tre principi della biodinamica sono:
1) mantenere la fertilità della terra;
2) rendere sane le piante in modo che possano resistere alle malattie e ai parassiti;
3) produrre alimenti di qualità più alta possibile.

Non bisogna quindi stupirsi che, nel secolo del materialismo e dello sfruttamento estremo delle ricchezze naturali, la biodinamica non abbia potuto espandersi su larga scala. Al contrario bisogna rallegrarsi che, malgrado tutto, essa venga seguita in molti paesi da decenni e con successo.

La biodinamica parte dalla conoscenza globale del pianeta e del suo rapporto col cosmo; questa conoscenza non si acquista da un giorno all'altro ma solo attraverso un'abitudine all'osservazione della natura e delle sue leggi che dovrebbe entrare a fare parte già dell'educazione scolastica. Oggi si sta lentamente acquistando una certa conoscenza ecologica ma si è ancora lontani dal capire la vita in tutte le sue manifestazioni.

L'uomo conosce alla perfezione il mondo della materia inorganica e le leggi della meccanica ma se applica le leggi di quel mondo alla vita finirà per distruggere la vita stessa che ha leggi e condizioni del tutto diverse. Non basta ammettere che l'agricoltura è una impresa biologica, bisogna prendere sul serio la parola "bios", che significa vita e "logos", che significa conoscenza, cioè bisogna acquistare la conoscenza della vita. Caratteristiche della vita sono: movimento, costruzione, trasformazione. Viceversa, caratteristiche della morte e della meccanica sono: inerzia, distruzione, stabilità.

Acquistando questa nuova conoscenza l'agricoltura non sarà più uno sperimentare incerto di nuovi metodi, ma poggerà su basi solide quanto l'arcaico che una volta guidava il contadino.




SFRUTTARE LE FORZE NATURALI

La biodinamica viene spesso descritta come un modo di coltivare senza concime chimico e senza veleni. Questi sono però solo gli aspetti secondari di un metodo che prima di tutto è caratterizzato da una cosciente utilizzazione delle forze naturali. Osservando la produzione vegetativa in natura, tre appaiono le espressioni fondamentali di questa forza naturale.

1. La liberazione nella terra di materie nutritive necessarie alla pianta.
2. L'inspirazione dall'atmosfera alla terra per mezzo delle piante.
3. L'autoregolazione che esiste in tutti gli organismi viventi.

Il principio di restituire alla terra quello che si prende non è idea fondamentale della biodinamica ma della chimica. Il principio fondamentale della biodinamica è attivare la vita nella terra in modo che le sostanze presenti nella terra in quantità enormemente superiore al bisogno possono essere liberate e assimilate dalle piante nella misura necessaria. Questo processo naturale si svolge grazie ai lombrichi, ai vermetti e ai microrganismi e ogni intervento deve avere come scopo di proteggere e intensificare questa "microstalla". L'inspirazione di sostanze dall'atmosfera è il secondo processo naturale. Solo in piccola parte (circa l'1%) le piante costruiscono la loro massa vegetativa dalla terra. Per il resto utilizzano anidride carbonica, acqua e azoto, che troviamo nell'humus in grande quantità. Con la costante distruzione e morte vegetativa l'azoto viene messo a disposizione per la vegetazione in crescita.

La presenza di concime chimico frena e disturba questo processo naturale. Con un surplus di azoto nell'humus si rischia lo sviluppo di batteri che liberano l'azoto dalla terra in modo che abbiamo una perdita di azoto invece di un'inspirazione.

Un terzo processo naturale caratterizza tutti gli organismi viventi e i sistemi ecologici: l'autoregolazione ovvero l'adattamento alle condizioni esterne; quello che di solito chiamiamo l'equilibrio della natura. Lo incontriamo nel nostro corpo capace di guarire oppure di resistere alle malattie. Lo incontriamo nei nostri muscoli che si rafforzano usandoli e nella nostra pelle che si ispessisce dove viene consumata. Viceversa, questa caratteristica è del tutto assente nel mondo inorganico dove il prolungato uso porta alla distruzione, non alla costruzione.

Nel nostro metabolismo il processo di autoregolazione viene influenzato e guidato da sostanze presenti in quantità minima, per esempio vitamine, ormoni, enzimi e microelementi. Mangiando determinati alimenti noi possiamo influenzare il nostro metabolismo e la nostra salute.

Anche nella terra noi troviamo questo processo di metabolizzazione di sostanze organiche e possiamo aiutarlo e migliorarne l'efficacia attraverso accorgimenti specifici quali l'impiego della rotazione, del cumulo e dei preparati biodinamici che altro non sono che strumenti per rafforzare la capacità autoregolatrice della terra, delle piante e dell'azienda agricola nel suo complesso.



domenica 25 agosto 2013

Pratica spirituale per l’eliminazione dei pensieri molesti

Come chiudete la porta di casa vostra per non far entrare persone estranee, allo stesso modo chiedete la vostra mente ai pensieri molesti che possono produrre un’impressione sgradevole al vostro cervello. Cosi facendo diventerete saggi e raggiungerete un’infinita pace e beatitudine. Cancellate la brama, la cupidigia e l’egoismo, nutrite solo pensieri puri. E’ senza dubbio un compito difficile per il quale dovete dedicare le migliori energie se volete riuscire. Ma i risultati li vedrete dopo breve tempo. L’annientamento di un pensiero cattivo vi darà forza sufficiente per annientare altri pensieri simili e questo fatto svilupperà in voi una maggiore forza d’animo e di volontà. Pertanto non disperate se vi capita di non riuscire a combattere un pensiero indesiderato. Riuscirete in seguito, perché voi accumulate nei vostri tentativi una forza spirituale interiore che si sviluppa sempre più in voi e che si manifesterà gradualmente. Certamente arriverete ad esserne coscienti.

Un pensiero molesto che si inserisce nella vostra mente vi può provocare un gesto di repulsione: è il segno del vostro progresso spirituale, è lo stato di crescita e di sviluppo interiore. Sarete spesso tormentati da pensieri di azioni riprovevoli compiute nel passato. Anche questo è un segno di risveglio spirituale, e non vi capiterà più di ripetere gli stessi errori.
Sia la mente che il corpo tremeranno e rabbrividiranno alla prospettiva di compiere la stessa cattiva azione di una volta. Continuate a praticare la meditazione con assiduità e in voi si instaurerà un processo tale per cui tutti i ricordi di azioni e di pensieri cattivi si dissolveranno da soli, facendovi sentire completamente felici e in un clima di purezza e di pace.
All’inizio, quando vi disponete a meditare, la vostra mente verrà assalita da ogni tipo di pensiero estraneo. Potreste chiedervi: “Perché avviene questo assalto proprio durante la meditazione, quando si tenta di avere unicamente dei pensieri puri?”. Le molte difficoltà che si incontrano su questo sentiero fanno tralasciare ai neo-aspiranti alla meditazione questa pratica. E’ come il tentativo che si compie per salire in groppa ad un asino, che è desideroso soltanto di buttarvi a terra.

Il vecchio pensiero instabile e non essenziale per il progresso dell’adepto si ripresenta combattivo e forte, proprio nel momento in cui cercate di contrastarlo con un pensiero buono. E’ la strenua lotta del nemico che cerca di resistere con tutte le forze quando lo attaccate nella battaglia. Nella natura esiste una legge di resistenza. Il vecchio pensiero inutile si rifiuta di credere che possa essere allontanato. Non lasciatevi prendere dallo sconforto.
I pensieri di questo genere diventeranno sempre più inconsistenti con la pratica della meditazione. Giungerà il momento in cui non esisteranno più, perché verranno sopraffatti dai pensieri positivi. E’ una legge della natura, per cui i pensieri bassi e incerti non possono contrastare quelli elevati e forti. E’ sempre il coraggio che ha la meglio sulla paura, come la pazienza ha la meglio sull’irritabilità, l’amore sull’odio, la purezza sulla brama, ecc. Esiste un elemento che vi indica il grado della vostra crescita spirituale ed è il fatto che vi sentite a disagio quando durante la meditazione siete assaliti da un pensiero indesiderato e inutile.

Nel passato non avete mai negato alloggio ai pensieri vani o maligni, anzi, davate loro il benvenuto e cercavate di trattenerli a lungo. Perseguendo la pratica spirituale con tenacia e perseveranza, riuscirete pienamente nel vostro intento. Anche l’aspirante meno convinto si renderà conto del cambiamento meraviglioso che è avvenuto in lui solo dopo due o tre anni di pratica continua di meditazione e di Japa. Ad un certo punto non potrà più smettere di eseguire gli esercizi, poiché se li interrompesse anche per un sol giorno, avvertirebbe la mancanza di un qualcosa, per cui ne risentirebbe tutto il suo equilibrio fisico e psichico.

Swami Sivananda Saraswati

martedì 6 agosto 2013

I pensieri sono cose viventi



I pensieri sono principi viventi, tenaci e solidi come la pietra. Noi possiamo cessare di esistere, ma i nostri pensieri non moriranno mai. Ogni cambiamento di pensiero, è sempre accompagnato dalle vibrazioni della sua sostanza mentale. Il pensiero, come forza, ha bisogno di una speciale materia sottile per esistere e per manifestarsi. Quanto più forte è il pensiero, tanto più precoce è la sua fruttificazione. Il pensiero deve essere focalizzato verso un determinato scopo con la stessa intensità con cui viene impresso e diretto. In tal modo il suo effetto sarà pari all’intenzione iniziale.

I pensieri sono forze più sottili

Il pensiero è una forza sottile, impercettibile, che trae la sua fonte maggiore di vita dall’alimentazione. Consultando i Chandogya Upanisad – e precisamente i dialoghi tra Uddalaka e Svetaketu – si potrà capire bene questo aspetto. Se il cibo con il quale ci alimentiamo è puro, anche il nostro pensiero diverrà ben presto puro. Chi ha pensieri puri, si esprime sempre con molta forza e con il suo linguaggio produce un’enorme impressione su coloro ai quali si rivolge con la parola. Egli influenza migliaia di persone tramite i suoi puri pensieri. Un pensiero puro è più tagliente della lama di un rasoio. Perciò nutrite sempre pensieri puri e sublimi. La disciplina del pensiero è una scienza esatta.

I pensieri sono messaggi radio

Chi nutre pensieri di odio, di gelosia, di vendetta e di malizia è in verità una persona molto pericolosa, perché provoca un senso di inquietudine e di cattiva volontà tra gli uomini. I pensieri sono come dei messaggi radio lanciati nell’etere e destinati ad essere ricevuti da coloro che si dispongono a captare tali frequenze di vibrazioni. Mentre coloro che nutrono pensieri sublimi e di devozione aiutano gli altri, sia nel caso che siano vicini, sia che si trovino lontani.

I pensieri hanno una forza straordinaria

Il pensiero dispone di un’immensa potenza. Esso può curare le malattie e può trasformare la mentalità ed il carattere di chiunque. Il pensiero può fare qualsiasi cosa, può operare meraviglie, fare miracoli e viaggiare a velocità inimmaginabile. Esso è una forza dinamica prodotta dalle vibrazioni del Prana psichico sulla materia cerebrale; è una forza come la gravitazione, la coesione e la repulsione.



Swami Sivananda Saraswati

martedì 30 luglio 2013

Filosofia Alimentare: Del vitto pitagorico



L’atto del mangiare riveste certamente un significato davvero importante, soprattutto se inquadrato nell’ottica delle relazioni che gesti e comportamenti assumono all’interno di una rete di relazioni intessute nel telaio delle varie dimensioni: fisiologica e filosofica, religiosa e spirituale, ecologica e morale, psicologica ed etologica, con le inevitabili implicazioni nell’ambito dei diritti degli animali.
“Diventare vegetariano non è meramente un gesto simbolico. Non è neanche un tentativo di isolarsi dalle sgradevoli realtà del mondo, di mantenersi puri e senza responsabilità per la crudeltà e la carneficina che ci circondano. Diventare vegetariano è il passo più concreto ed efficace che si può compiere per porre fine tanto all’inflizione di sofferenze agli animali non umani quanto alla loro uccisione…- dichiara Peter Singer in “Liberazione Animale” (Net, Milano, 2003).
“Il vegetarianesimo – aggiunge- è una forma di boicottaggio…” nei confronti di quanti traggono profitto dall’indiscriminato sfruttamento industriale delle bestie, dall’impiego su larga scala dei metodi intensivi di allevamento, e dalla commercializzazione di carcasse e cadaveri sezionati, da predisporre alla soddisfazione dei futili desideri del palato. “Per rendere più efficace l’aspetto del boicottaggio del vegetarianesimo, non dobbiamo essere schivi sul nostro rifiuto di mangiar carne. Ai vegetariani nelle società onnivore si chiede sempre la ragione della loro strana dieta. Ciò può essere irritante, o addirittura imbarazzante, ma dà anche l’opportunità di informare la gente di crudeltà di cui può non essere consapevole” (Peter Singer). Tale forma di boicottaggio non sarà ovviamente in grado di riportare in vita l’animale già macellato, ma farà riflettere sul futuro di quelle condizioni che ci appariranno subito inaccettabili quanto la complicità o la responsabilità indiretta nel perpetuarsi di omicidi e stragi.
Il vegetarianesimo è però anche una forma di utopia, perché, qualora il boicottaggio di pochi non avrà sortito alcun effetto, si sarà pur sempre seminato un ideale contrario all’oppressione, all’ingiustizia, alla crudeltà. In ogni caso avremo ottenuto, sia pur ad un ridotto livello personale, la riconoscenza di tutti quegli esseri la cui sofferenza sarà stata risparmiata dalla nostra dieta, in accordo a quel medesimo brillante spirito con cui George Bernard Shaw avrebbe invitato al proprio funerale tutto il corteo di vitelli, pecore, maiali, conigli, tacchini, polli, e pesci che non aveva mangiato in vita. I vegetariani restano comunque consapevoli che il loro piccolo, individuale contributo non violento a tavola potrebbe, anche se in minima parte, ridurre la sofferenza futura, nella ferma convinzione che la fine della crudeltà non potrà che costituire il più ragionevole ed auspicabile dei progressi di civiltà in ogni campo dell’esistenza.
A valutare la cosa da un punto di vista strettamente economico, “… il cibo sprecato dalla produzione animale nei paesi ricchi sarebbe sufficiente, se adeguatamente distribuito, a porre fine tanto alla fame quanto alla malnutrizione in tutto il mondo” (Peter Singer), per via degli elevati costi in termini di mangimi, di energia, di acqua. Ed a questo calcolo c’è da aggiungere l’impoverimento ecologico determinato dal disboscamento necessario a creare nuovi pascoli per incrementare l’allevamento di ovini e bovini, che però, dobbiamo ricordare, non sono le sole bestie a venire sacrificate.
C’è poi da prendere in considerazione come una sorta di pseudo-preoccupazione di specie: “A che punto della scala evolutiva dobbiamo giungere? – si preoccupa Peter Singer in “Liberazione Animale” - Mangeremo il pesce o no? Che dire dei gamberetti? E delle ostriche? Per rispondere a queste domande dobbiamo tener presente il principio fondamentale su cui si basa la nostra considerazione per gli altri esseri… il solo confine legittimo per la nostra preoccupazione per gli interessi degli altri esseri è il punto in cui non è più esatto dire che un essere ha degli interessi. Per avere interessi, in senso stretto e non metaforico, un essere dev’essere in grado di soffrire o provare piacere. Se un essere soffre, non vi può essere alcuna giustificazione morale per trascurare tale sofferenza, o per rifiutarsi di valutarla quanto l’analoga sofferenza di qualsiasi altro essere. Ma anche l’inverso è vero. Se un essere non è capace di soffrire, o di godere, non c’è niente da prendere in considerazione. Perciò il problema di tracciare la linea è il problema di decidere quando siamo giustificati a ritenere che un essere sia incapace di soffrire”. Sol perché i pesci non sono in grado di emettere gemiti e lamenti, non significa che le spasmodiche vibrazioni del loro guizzare non corrispondano alle manifestazioni dolorose espresse dai mammiferi con vocalizzazioni percepibili dalle nostre orecchie. Quanto vale per i pesci va esteso ad altre forme di vita acquatica. I crostacei, ad esempio, possiedono sistemi nervosi, sebbene diversi dal nostro, altamente sviluppati, e complessi, dalle energiche ed immediate reazioni agli stimoli esterni. I molluschi sono indubbiamente organismi più semplici. Eppure anche il polpo è un mollusco, il più sviluppato fra tutti, e dà prova di sensibilità ed intelligenza comportamentale. Allora, “… così come non si può affermare con alcuna sicurezza che queste creature siano sensibili al dolore, non si può neppure essere sicuri che non lo siano” (Peter Singer).
Arrivati al termine della scala evolutiva, andranno inclusi quei prodotti, come il latte, il miele, le uova, lo yogurt, i formaggi, che tradizionalmente rientrano in una dieta, per altro, non cruenta? L’astensione dall’uccisione dovrebbe essere sufficiente a rendere accettabile questi alimenti, che potrebbero però essere considerati, in un’ottica più restrittiva, frutto di un circuito a cui non è estranea una qualche forma di sfruttamento, e quindi di sofferenza. Verrebbero così invalidate tutte quelle disquisizioni su certe rilevanti questioni filosofiche che complicano la pratica vegetariana, perché riguardanti essenzialmente annotazioni terminologiche tali da distinguere, da un punto di vista linguistico od etimologico, quanti si limitano ad una alimentazione non violenta, accettando i prodotti animali, da quanti (vegan) invece ritengono ciò moralmente ingiustificabile, poiché le specie sfruttate non avrebbero granché da guadagnare dalla rinuncia alla carne se questa viene sostituita con un’accresciuta quantità di derivati animali, quali uova e latticini freschi o stagionati. Sono queste le problematiche che si presentano a chi nevroticamente si pone delle domande sui rapporti tra etica e alimentazione, anche se c’è sempre un divario tra le convinzioni intellettuali e le azioni di rottura su consolidate abitudini, fino alla proposizione di nuovi stili di vita. Le ragioni a favore di una cucina non cruenta sembrano determinate più dalla consapevolezza che il suo genuino sapore e le sue capacità nutritive vengano direttamente mutuate dalla terra, scevre da sprechi di produzione e senza la spocchiosa pretesa di essere autorizzate a macellare alcun essere vivente per via della superiorità di specie.
“Il vegetarianesimo porta con sé un nuovo rapporto con il cibo, le piante e la natura” (Peter Singer). L’esclusione della carne e dei prodotti della morte e della putrefazione ci riporta a più stretto contatto con il tempo e le stagioni, lo spazio ed il suolo, in uno con la vita e la sua forza intrinseca. Ed è difatti assolutamente infondata la preoccupazione di rischiare di non nutrirsi in maniera adeguata nell’abbandonare l’alimentazione onnivora, come quella di perdere alcuni piaceri irrinunciabili. La gastronomia e l’arte culinaria sono in grado di smentire queste superficiali affermazioni. E addirittura le diete che si prefiggono la salute e la longevità, quali la McDougall o la Pritikin, sono in ultima analisi ed in gran parte vegetariane. Stesso discorso vale per quanto riguarda il muesli, sfruttato a scopo sanitario da Bircher-Benner, o l’introduzione dei cereali nella prima colazione da parte di John Harvey Kellogg, autore di “Shall We Slay to Eat?” (1905). A cominciare da Linneo (1707-1778), che stabilì l’appartenenza allo stesso ordine antropomorfo, definito poi dei Primati, sia degli esseri umani sia delle scimmie, sono molti i medici a promuovere la dieta vegetariana a scopo profilattico e terapeutico.
Edward Tyson (1650-1708) dimostra la continuità anatomica tra scimmia ed uomo, il cui apparato digerente è predisposto per i cibi di origine vegetale. Agli inizi del settecento, Louis Lémery (1677-1743), con il “Traité des Aliments” (1702), cerca delle dimostrazioni con prove empiriche. Philippe Hecquet (1661-1737), pur mantenendosi nell’alveo della teologia cattolica (“Médecine théologique”, 1733), propugnava un regime “quaresimale” con il suo “Traité de dispenses de Carême” (1709). Profilassi e cura mediante i cibi ricevettero maggior attenzione da parte del medico della famiglia reale inglese, John Arburthnot (1667-1735), autore di un “Essay Concerning the Nature of Aliments” (1730). George Cheyne (1671–1743) si specializzò nel trattamento dei disturbi nervosi per mezzo della dieta. Avidità di cibo e ghiottonerie era vista come un peccato contro natura nell’”Essay of Health and Long Life” (1724), che riscosse un notevole successo presso il pubblico femminile, soprattutto in quanto Cheyne presentava i disturbi psicosomatici, definiti “English malady”, quali sicuri sintomi di una superiore sensibilità. Ed a questo argomento faceva appello nel ricongiungerlo alla questione della compassione verso le creature viventi.
Antonio Cocchi (1695-1758), dopo un soggiorno inglese, lesse, in occasione del suo ingresso all’Accademia della Crusca, un discorso destinato a suscitare un ampio e vivace dibattito nella cerchia dei medici italiani dell’epoca: “Del Vitto pitagorico per uso della Medicina”(1743). In esso Cocchi definiva la dieta latto-vegetariana in grado di “guardare la presente sanità del corpo e di ristabilire la perduta”, non trattandosi soltanto di un problema di “temperanza” ma di “materie del cibo”, ovverossia di principi nutritivi. Nello specifico, gli alimenti di origine vegetale curano meglio dei farmaci, non soltanto i disturbi nervosi, ma anche gotta, reumatismi, elefantiasi e scorbuto, di cui individuava precisamente la causa nella carenza di frutta e verdura fresche. In una prospettiva epidemiologica, spiegava la frequenza di determinate malattie nelle diverse regioni, oltre che per le caratteristiche del clima, pure per i differenti stili di vita. Per lui, comunque, il vitto pitagorico non rappresentava affatto una rinuncia, anzi non lo riteneva “privo nemmeno di una certa delicata voluttà, e d’un lusso gentile, e splendido ancora, se si voglia volger la curiosità, e l’arte, alla scelta, ed all’abbondanza degli ottimi alimenti, freschi vegetabili, come pare, che c’inviti la fertilità, e naturale disposizione delle nostre belle campagne”. All’apologia di Pitagora, Cocchi affianca il primato culturale della nostra penisola, inserendo l’antica sapienza italica nel dibattito dell’epoca che allude alla critica radicale della religione quale strumento di controllo sul popolo. Le principali raccomandazioni nutrizionali essenzialmente si riassumono, per lo più, in un invito a ridurre il consumo dei grassi saturi e del colesterolo (leggasi carne, panna e burro), aumentando l’apporto di cereali integrali, verdure e frutta. Il pregiudizio proteico trascura il dato, allarmante nei paesi ricchi dell’occidente, di un eccesso di aminoacidi da non accumulare, poiché naturalmente espulso o trasformato in carboidrati. E’, poi, senz’altro irrilevante la provenienza delle unità proteiche essenziali, purché ne venga rispettata l’adeguata mescolanza in forma assimilabile. Ricorrendo contemporaneamente a tipi diversi di alimenti di origine vegetale, quali ad esempio cereali e legumi, non è affatto difficile combinare delle perfette equivalenze a quelli che vengono considerati i valori nutritivi più elevati, secondo il principio della complementarietà proteica. Perfino la vitamina B12, infine, ritenuta non assimilabile da fonti vegetali, viene prodotta nel nostro stesso intestino da parte di microrganismi ospiti della flora batterica, ed in ogni caso si può ricavare da alghe, come la laminaria o dalla soja sottoposta a fermentazione, com’è d’uso in estremo oriente (tempeh), o dalle salse di tradizione giapponese (tamari). In molti contesti del pensiero umano, come nel buddismo o nell’ebraismo, si reputa l’etica ben più importante della religione, e il rispetto della giustizia, di norme comportamentali e di osservanze morali un valore che aiuta a metterci in relazione con il divino in misura sicuramente maggiore della superficiale ritualità. Solo chi riesce a non rinunciare al proprio diritto alla libertà della dignità e della virtù, si distingue dalla generale uguaglianza di fronte all’in-omologabile, perché ineffabile, e può aspirare al concetto di santità.
Una tale coerenza, perseguita pure nell’alimentazione, suggerisce modalità di comportamento, e di preparazione all’atto, che contribuiscono ad intessere delle solide relazioni con noi stessi. Un uomo onesto, pio, giusto, (khassidim) per gli ebrei osservanti, sarà, secondo l’espressione yiddish, “a kushere yid”. Allora il concetto di buon comportamento, di kasheruth, o di etica alimentare, per continuare a seguire sempre lo stesso esempio relativo agli israeliti, propone delle adeguatezze, dei cibi consoni, suddividendoli in permessi ed in proibiti. E il più perentorio divieto riguarda l’assoluta proibizione di alimentarsi del sangue. Ma è facile riconoscere in questo divieto una primitiva costumanza vegetariana, in certo qual modo, rimossa. Il sangue è visto cioè come un surrogato, simbolo di sacralità, perché fonte della vita. Allora il procedimento per renderekasher la carne consiste nel farle perdere ogni traccia di linfa, lavandola e sciacquandola con acqua salata, come il mare, altra icona dell’origine dell’esistenza. La narrazione biblica, però, ci ricorda che in principio il permesso divino consentiva di cibarsi esclusivamente di prodotti vegetali, fatta eccezione per un solo frutto emblematico per l’evoluzione esoterica della consapevolezza e della conoscenza. Dopo Caino, ma ancor più in seguito al diluvio, appare la realistica considerazione che la ferocia umana nei confronti dei propri simili non potrà, di conseguenza, risparmiare le altre specie. Cosicché la decadenza dei valori morali avrebbe ridotto il divieto alla regola esposta in Esodo (23,19): “Non cucinerai il vitello nel latte di sua madre”. Genesi (32,33) propone poi l’interdizione per “il nervo della vena della coscia”, senz’altro bizzarra se non fosse stato proprio quello il punto anatomico in cui venne colpito Giacobbe nel corso della sua lotta con l’angelo del Signore; fu quel fatidico colpo a renderlo claudicante e quindi, simbolicamente, in continua oscillazione tra cielo e terra. Eppure, tra i patti divini stipulati con Noè, venne subito evidenziata la proibizione di tormentare le bestie. Ragion per cui lo shokhet, che opera la macellazione rituale, quasi sulle orme dell’ ‘aqedah (il “sacrificio di Isacco”), si preoccupa di rescindere la giugulare con un’affilatissima lama, nella convinzione che questo sia il metodo meno doloroso, forse per il carnefice, più che per la vittima. Come il tabù per il sangue, anche quello per il latte rivela la finalità di evitare la contaminazione di ciò che ha il compito di trasmettere la vita e di nutrire i primi giorni dei mammiferi con il prodotto della negazione della vita stessa. I riferimenti allo zoccolo fesso ed ai ruminanti farebbero riferimento, il primo, alla materialità, all’adesione totale alla terra, ed i secondi invece al “ritorno” del cibo per un ulteriore arricchimento nutritivo. Il maiale aderisce fin troppo alla terra e si strafoga, e assumerlo quindi, per assomigliargli, sarebbe quanto mai sconveniente. Sembra quasi di sentire un’eco di quell’operetta morale di Plutarco (“Gryllos”), in cui lo scrittore greco del I sec. d. C. fa dialogare con Ulisse uno di quegli uomini tramutati dalla maga Circe. Alla proposta dell’eroe di liberarlo dall’incantesimo, gli viene risposto come non sia del tutto scontato voler ritornare alla condizione precedente, poiché l’anima nella quale la virtù si accresce “spontaneamente” risulta migliore di quella “costretta” ad esprimerla. La condizione del maiale è dunque più felice dell’umana per via di una perfezione che gli è propria, mentre il ritorno all’umanità farebbe gravare sull’anima lo sforzo di perseguire una nobiltà tutta da conquistare. Per la Mannucci (“La Cena di Pitagora – storia del vegetarianismo dall’antica Grecia a Internet”, Carocci, Roma 2008), questo breve testo di Plutarco sarebbe “in polemica con le posizioni che fondano la superiorità dell’uomo attribuendo a lui solo la sensibilità e l’intelligenza e rendendo nel contempo equivalenti tra loro e per così dire anonimi tutti gli animali”. In appendice al dialogo di Plutarco, una novella “Circe” ripropone l’imbarazzante problema in termini psicologici. “L’antropomorfismo è un rischio che dobbiamo correre, perché dobbiamo fare riferimento alla nostra esperienza umana per formulare domande relative all’esperienza animale… – scrive Emanuela Cenami Spada in “Amorphism, mechanomorphism, and anthropomorphism”, in Robert W. Mitchell, Nicholas S. Thompson, H. Lyn Miles (a cura di): “Anthropomorphism, Anecdotes, and Animals” (Suny Press, Albany 1997) – il solo ‘rimedio’ possibile è la critica continua alle definizioni con cui operiamo al fine di ottenere risposte adeguate alle nostre domande e all’imbarazzante problema che gli animali costituiscono per noi”. Le risponde Jonathan Safran Foer, in “Se niente importa, perché mangiamo gli animali?” (Guanda, Parma 2010): “noi non ci limitiamo a proiettare l’esperienza umana sugli animali; noi siamo (e non siamo) animali”. Chiedersi “che cos’è un animale?” è come chiedersi “chi siamo?”, non solletica solo la nostra immaginazione, equivale a separarsi dagli “altri”, ma anche a chiedersi “cos’è un essere umano?”. La nostra interazione con gli “altri” e con gli animali riflette la comprensione che abbiamo di noi stessi; la compassione e la sensibilità verso il benessere altrui contribuisce a plasmare tale comprensione e fortificarla. Nelle nostre idee circa l’alterità e l’animalità ricorre una componente emotiva fortissima, per cui sottoporle ad una stretta critica razionale rischia di svelare quegli aspetti ampiamente inesplorati dell’accezione medesima che noi abbiamo della nostra stessa umanità. E’ un implicito richiamo alla virtù della temperanza? La suggestione del comune buon senso induce sempre all’equilibrio ed alla moderazione. Da moderare il desiderio proveniente da incontrollabili passioni, per conformarsi alla potenza di quell’azione regolatrice e mediatrice che un sano appetito suggerisce. Era questo l’autorevole pensiero di Spinoza, sul quale avrebbe potuto concordare persino Epicuro quando affermava che vanno soddisfatti solo i piaceri necessari. E la necessità si vede dettata dalla corrispondenza alla verità, ed a legittimare il piacere è l’idea, l’essenza, la sua stessa sostanza, in uno l’esistenza. Così sono i piaceri “naturali”, finalizzati alla sussistenza, e non effimeri, o superflui, anacronisticamente voluttuari, a catalogarsi come “mero supplemento”. Molti filosofi dell’antichità classica avrebbero proiettato sull’atto di nutrirsi quello che si potrebbe definire come un vero e proprio orizzonte di “senso”, un qualcosa comunque da ricollegare strettamente al funzionamento fisiologico ed alla meccanica intestinale. Sulla scia della moderazione e della temperanza nelle attitudini umane, alla misura nel bere e nel mangiare, qualcuno avrebbe accostato un dosaggio di tipo farmacologico. Tommaso Campanella concepiva l’alimentazione in chiave terapeutica, convinto che cibi e bevande servano non solo come nutrimento ma anche come cura. Ma la scuola filosofica maggiormente coinvolta in quest’ambito, tanto da aver contrassegnato con il proprio nome un certo “vitto”, è quella di Crotone, la cui peculiare dieta ci descrive Giamblico. Pitagora propugnava di non arrecare alcun danno agli animali, se non per legittima necessità di difesa. La proibizione era sollecitata da una disposizione “orfica” a sintonizzarsi con il divino, inteso nella sua qualità di permeare di sé il cosmo intero. L’atto di mangiare nell’uomo non risulta essere una semplice funzione né fisiologica né meccanica. L’umanità si distingue dal mondo animale anche per questo, per il modo in cui si ciba. E la sua essenza specifica potrà rintracciarsi nella modalità di alimentarsi e forse anche e soprattutto in “cosa” mangia. Nel non ripetersi e nel variare sta in parte una caratteristica distinzione della logica e del raziocinio tipicamente umani. All’interno di una medesima specie animale l’atto di cibarsi è sempre uguale, prevedibile nella sua monotonia, non contraddistinto se non dalla sua stessa caratterizzazione di specie. Se per Aristotele l’uomo è un animale dotato di logos, va anche ammesso che tale affermazione scaturisce proprio dallo stesso logos, che ne riconosce l’originaria animalità. Insomma la natura umana è duplice, ma non corrisponde affatto alla semplice somma delle parti. Sta forse in questo una qualche verità sul più intimo segreto della questione dibattuta circa la reale essenza dell’umanità. Tutti gli esseri viventi si nutrono, ma l’atto di mangiare è proprio degli animali, anche se certe piante tropicali sembrano fare eccezione. L’ambiguità di questo assioma potrebbe caratterizzare la natura umana sia nel senso di accomunarla che in quello distinguerla da quella degli altri animali, per la qual cosa alla prima si addice il verbo tedesco essen (consumare) ed agli altri:fressen (divorare). Qualcuno si è spinto a sostenere che non sia la coscienza, il pensiero, il linguaggio, o la spiritualità, a contraddistinguere il genere umano, bensì ciò che ingerisce. Jakob Moleschott (1822-1893), con “Der Kreislauf des Lebens” (1852), aveva interpretato l’alimentazione come un qualcosa che avrebbe contribuito al costituirsi ed al perfezionarsi della cultura, individuando un certo parallelismo tra il miglioramento del nutrimento ed il progresso della civiltà (“Niente fosforo, niente pensiero”). Ludwig Andreas Feuerbach (1804-1872), con il suo celebre saggio del 1862, “Il mistero del sacrificio o l’uomo è ciò che mangia”, ricercava sotto una nuova prospettiva l’unità inscindibile tra psiche e corpo. Ne scaturiva l’esplicito invito a scegliere con maggiore attenzione il proprio cibo, perché così facendo si sarebbe potuta sperimentare una più raffinata attitudine al pensare ed all’agire, contribuendo insomma a fornire un’utile, quanto semplice, impulso alla naturale evoluzione interiore dei singoli e conseguentemente dell’umanità intera.


Giuseppe M. S. IERACE

martedì 26 febbraio 2013

E' l'animo che devi cambiare, non il cielo sotto cui vivi


Pensi che sia capitato solo a te e ti stupisci come di un fatto inaudito, perché, pur avendo viaggiato a lungo e in tanti posti diversi, non ti sei scrollato di dosso la tua tristezza e il tuo malessere spirituale? Devi cambiare animo, non cielo. Attraversa pure il mare, lascia, come dice il nostro Virgilio, che Scompaiano terre e città, all'orizzonte, i tuoi vizi ti seguiranno dovunque andrai. Socrate, a un tale che si lagnava per la stessa ragione, disse: "Perché ti stupisci se viaggiare non ti serve? Porti in giro te stesso. Ti perseguitano i medesimi motivi che ti hanno fatto fuggire". A che possono giovare nuove terre? A che la conoscenza di città e posti diversi? Tutto questo agitarsi è vano. Chiedi perché questa fuga non ti sia di aiuto? Tu fuggi con te stesso. Deponi il peso dell'anima: prima di allora non ti andrà a genio nessun luogo. Pensa che la tua condizione è simile a quella che il nostro Virgilio rappresenta nella profetessa esaltata, spronata e invasata da uno spirito non suo: La profetessa si dimena tentando di scacciare il dio dalla sua anima.
Vai di qua e di là per scuoterti di dosso il peso che ti opprime e che diventa più gravoso proprio per questa tua agitazione; così in una nave il carico stabile grava di meno, mentre, se è sballottato qua e là in maniera diseguale, fa affondare il fianco su cui pesa. Qualunque cosa fai, si risolve in un danno per te e gli stessi continui spostamenti ti nuocciono: tu muovi un ammalato. Ma quando avrai rimosso questo male, ogni cambiamento di sede diventerà piacevole. Anche se verrai esiliato in terre lontanissime o sarai trasferito in un qualsiasi paese barbaro, quel posto, comunque sia, ti sembrerà ospitale. Conta più lo stato d'animo che il luogo dove arrivi, perciò l'animo non va reso schiavo di nessun posto. Bisogna vivere con questa convinzione: non sono nato per un solo cantuccio, la mia patria è il mondo intero. Se ti fosse chiaro questo concetto, non ti stupiresti che non ti serva a niente cambiare continuamente regione, perché sei stanco delle precedenti; ti sarebbe piaciuta già la prima, se le considerassi tutte come tue. Ora non viaggi, vai errando e ti lasci condurre e ti sposti da un luogo a un altro, mentre quello che cerchi, vivere serenamente, si trova dovunque. C'è forse un posto più turbolento del foro? Anche qui, se è necessario, si può vivere tranquilli. Ma se potessimo decidere di noi stessi, fuggirei lontano anche dalla vista e dalla vicinanza del foro; come i luoghi insalubri minano anche una salute di ferro, così per uno spirito sano, ma non ancora perfetto e vigoroso, ci sono posti malsani. Non sono d'accordo con quelli che si spingono in mezzo alle onde e prediligono una vita agitata e lottano ogni giorno animosamente con mille difficoltà. Il saggio dovrà sopportarle, non andarsele a cercare, e preferire la tranquillità alla lotta; non giova a molto essersi liberati dai propri vizi per poi combattere con quelli degli altri. "Trenta tiranni," ribatti, "fecero pressione su Socrate, ma non poterono fiaccarne lo spirito." Che importa quanti siano i padroni? La schiavitù è una sola; se uno la disprezza, per quanti padroni abbia, è libero.
È tempo di finire, purché prima io paghi il pedaggio. "Aver coscienza delle proprie colpe è il primo passo verso la salvezza." A me pare che Epicuro abbia espresso un concetto molto giusto: se uno non sa di sbagliare, non vuole correggersi; devi coglierti in fallo, prima di correggerti. Certi si gloriano dei propri vizi: e tu pensi che cerchi un rimedio chi considera virtù i suoi vizi? Perciò per quanto puoi, accùsati, fa' un esame di coscienza; assumi prima il ruolo di accusatore, poi di giudice, da ultimo quello di intercessore; e talvolta punisciti. Stammi bene.
Pensi che sia capitato solo a te e ti stupisci come di un fatto inaudito, perché, pur avendo viaggiato a lungo e in tanti posti diversi, non ti sei scrollato di dosso la tua tristezza e il tuo malessere spirituale? Devi cambiare animo, non cielo. Attraversa pure il mare, lascia, come dice il nostro Virgilio, che Scompaiano terre e città, all'orizzonte, i tuoi vizi ti seguiranno dovunque andrai. Socrate, a un tale che si lagnava per la stessa ragione, disse: "Perché ti stupisci se viaggiare non ti serve? Porti in giro te stesso. Ti perseguitano i medesimi motivi che ti hanno fatto fuggire". A che possono giovare nuove terre? A che la conoscenza di città e posti diversi? Tutto questo agitarsi è vano. Chiedi perché questa fuga non ti sia di aiuto? Tu fuggi con te stesso. Deponi il peso dell'anima: prima di allora non ti andrà a genio nessun luogo. Pensa che la tua condizione è simile a quella che il nostro Virgilio rappresenta nella profetessa esaltata, spronata e invasata da uno spirito non suo: La profetessa si dimena tentando di scacciare il dio dalla sua anima.
Vai di qua e di là per scuoterti di dosso il peso che ti opprime e che diventa più gravoso proprio per questa tua agitazione; così in una nave il carico stabile grava di meno, mentre, se è sballottato qua e là in maniera diseguale, fa affondare il fianco su cui pesa. Qualunque cosa fai, si risolve in un danno per te e gli stessi continui spostamenti ti nuocciono: tu muovi un ammalato. Ma quando avrai rimosso questo male, ogni cambiamento di sede diventerà piacevole. Anche se verrai esiliato in terre lontanissime o sarai trasferito in un qualsiasi paese barbaro, quel posto, comunque sia, ti sembrerà ospitale. Conta più lo stato d'animo che il luogo dove arrivi, perciò l'animo non va reso schiavo di nessun posto. Bisogna vivere con questa convinzione: non sono nato per un solo cantuccio, la mia patria è il mondo intero. Se ti fosse chiaro questo concetto, non ti stupiresti che non ti serva a niente cambiare continuamente regione, perché sei stanco delle precedenti; ti sarebbe piaciuta già la prima, se le considerassi tutte come tue. Ora non viaggi, vai errando e ti lasci condurre e ti sposti da un luogo a un altro, mentre quello che cerchi, vivere serenamente, si trova dovunque. C'è forse un posto più turbolento del foro? Anche qui, se è necessario, si può vivere tranquilli. Ma se potessimo decidere di noi stessi, fuggirei lontano anche dalla vista e dalla vicinanza del foro; come i luoghi insalubri minano anche una salute di ferro, così per uno spirito sano, ma non ancora perfetto e vigoroso, ci sono posti malsani. Non sono d'accordo con quelli che si spingono in mezzo alle onde e prediligono una vita agitata e lottano ogni giorno animosamente con mille difficoltà. Il saggio dovrà sopportarle, non andarsele a cercare, e preferire la tranquillità alla lotta; non giova a molto essersi liberati dai propri vizi per poi combattere con quelli degli altri. "Trenta tiranni," ribatti, "fecero pressione su Socrate, ma non poterono fiaccarne lo spirito." Che importa quanti siano i padroni? La schiavitù è una sola; se uno la disprezza, per quanti padroni abbia, è libero.
È tempo di finire, purché prima io paghi il pedaggio. "Aver coscienza delle proprie colpe è il primo passo verso la salvezza." A me pare che Epicuro abbia espresso un concetto molto giusto: se uno non sa di sbagliare, non vuole correggersi; devi coglierti in fallo, prima di correggerti. Certi si gloriano dei propri vizi: e tu pensi che cerchi un rimedio chi considera virtù i suoi vizi? Perciò per quanto puoi, accùsati, fa' un esame di coscienza; assumi prima il ruolo di accusatore, poi di giudice, da ultimo quello di intercessore; e talvolta punisciti. Stammi bene.

Seneca Lettera 28

domenica 17 febbraio 2013

413° anno dalla morte di Giordano Bruno

Dalla prima delle tre denunce scritte da Giovanni Mocenigo contro Giordano Bruno
"Venezia, 23 maggio 1592. Giovanni Mocenigo all'Inquisitore di Venezia… Denuncio, per obbligo della mia coscienza e per ordine del mio confessore, di aver sentito dire a Giordano Bruno che è bestemmia grande quella dei cattolici di dire che il pane diventa carne; che lui è nemico della Messa; che nessuna religione gli piace; che Cristo fu un tristo figuro; e che faceva miracoli apparenti; e ch'era un mago. Ha detto che la Vergine non può aver partorito; che la nostra fede cattolica è tutta piena di bestemmie contro la maestà di Dio; che bisognerebbe togliere la parola e i soldi ai frati perché imbrattano il mondo; che sono tutti asini; e che le nostre opinioni sono dottrine da asini... Di tutto questo ho voluto dar conto a Voi Padre Molto Reverendo perché giudichi del fatto, secondo prudenza e secondo la vostra santa mente...."


La condanna                                                 Roma 17/02/1600

"Invocato dunque il nome di Nostro Signore Gesù Christo et della sua gloriosissima Madre sempre vergine Maria, nella causa et cause predette al presente vertenti in questo Santo Offitio tra il reverendo Giulio Monterentii, dottore di leggi, procurator fiscale di detto Santo Offitio, da una parte, et te fra Giordano Bruno predetto, reo inquisito, processato, colpevole, impenitente, ostinato et pertinace ritrovato, dall'altra parte: per questa nostra difinitiva sententia, quale di conseglio et parere de' reverendi padri maestri di sacra theologia et dottori dell'una et l'altra legge, nostri consultori, proferimo in questi scritti, dicemo, pronuntiamo, sententiamo et dichiaramo te, fra Giordano Bruno predetto, essere heretico impenitente, pertinace [et ostinato], et perciò essere incorso in tutte le censure ecclesiastiche et pene [dalli sacri] Canoni, leggi et constitutioni, così generali come [particolari, a] tali heretici confessi, impenitenti, pertinaci et ostinati imposte; et come tale te degradiamo verbalmente et dechiaramo dover esser degradato, si come ordiniamo et comandiamo che sii attualmente degradato da tutti gl'ordini ecclesiastici maggiori et minori quali sei constituito, secondo l’ordine dei sacri Canoni; et dover essere scacciato, si come ti scacciamo, dal foro nostro ecclesiastico et dalla nostra santa et immaculata Chiesa, della cui misericordia ti sei reso indegno; et dover esser rilasciato alla Corte secolare, si come ti rilasciamo alla Corte di voi monsignor Governatore di Roma qui presente. per punirti delle debite pene, pregandolo però efficacemente che voglia mitigare il rigore delle leggi circa la pena della tua persona, che sia senza pericolo di morte o mutilatione di membro. Di più, condanniamo, riprobamo et prohibemo tutti gli sopra detti et altri tuoi libri et scritti come heretici et erronei et continenti molte heresie et errori, ordinando che tutti quelli che sin'hora si son havuti, et per l’ avenire verranno in mano del Santo Offitio siano publicamente guasti et abbrugiati nella piazza di san Pietro, avanti le scale, et come tali che siano posti nell’ Indice de libri prohibiti, si come ordiniamo che si facci. Et così dicemo, pronuntiamo, sententiamo, dechiaramo, degradiamo, commandiamo et ordiniamo, scacciamo et rilasciamo et preghiamo in questo et in ogni altro meglior modo et forma che di ragione potemo et dovemo".

                                                                                    

venerdì 15 febbraio 2013

L'illusione di poter scegliere


Provate ad alzare un dito, decidendo liberamente se alzare il destro o il sinistro. Un secondo prima della vostra decisione niente e nessuno potrebbe prevedere quale dito alzerete, giusto? Ne andrebbe della vostra libertà, se scoprirete che l'esito della vostra decisione può essere previsto già prima che voi decidiate? Lo studio della natura però ci insegna che nulla avviene senza una causa, e in generale il mondo è deterministico, cioè il futuro è determinato dallo stato di cose precedenti. Quindi un'osservazione precisa dello stato del mondo potrebbe permetteredi prevedere in anticipo anche l'esito di quella che ci sembra una libera decisione. Come si conciliano determinismo e libertà della scelta?
Il conflitto fra la necessità che osserviamo reggere la Natura e la nostra sensazione di essere liberi, è il problema del libero arbitrio. Una possibile soluzione del problema è presentata in una delle più belle pagine della filosofia di tutti i tempi: la Seconda Proposizione, e il relativo "Scolio" (commento), nella parte terza dell'Etica di Baruch Spinoza.
Secondo Spinoza, mente e corpo non sono entità differenti. Sono due modi di descrivere e concepire la stessa entità, ed entrambe sono guidate dalla necessità. Ma allora da dove viene l'illusione che le nostre scelte siano "libere". La risposta di Spinoza è semplice e folgorante: viene dal fatto che ignoriamo le cause complesse che ci hanno portato alla scelta. "Libero arbitrio" è il nome che diamo alle nostre azioni delle cui cause non siamo consapevoli. Spinoza osserva che la complessità del nostro corpo (oggi diremo del nostro cervello) è molto grande. Se potessimo conoscere in dettaglio il funzionamento, vedremo che prima della "libera" decisione, era già in corso una catena di eventi fisici che poteva avere un esito solo.
Oggi, trecentocinquant'anni più tardi, esperimenti recenti nel campo della neuroscenza vengono a portare un sostegno inaspettato alle idee di Spinoza, aprendo un dialogo serrato e affascinante tra filosofia e neuroscienziati.
Il primo esperimento di questo genere è stato realizzato da John Dylan Haynes al Centro Bernstein per la Neuroscienza Computazionale di Berlino, e i risultati sono stati pubblicati nella rivista "Nature Neuroscienze" Haynes ha usato la risonanza magnetica funzionale, cioè la macchina che fotografa l'attività elettrica del cervello, per osservare l'attività celebrale di diverse persone mentre decidono. i soggetti dell'esperimento dovevono scegliere liberamente se schiacciare un pulsante a destra oppure uno a sinistra. Il risultato sorprendente è che l'osservazione dell'attività celebrale precedente al momento della decisione permette di prevedere in anticipo qualr decisione verrà presa. Un anticipo che arriva fino a quasi una decina di secondi. In altre parole, nel momento in cui voi decidete "liberamente" se alzare il dito destro o quello sinistro, dentro il vostro cervello la decisione è già determinata dalla biochimica, a vostra insaputa, da almeno una decina di secondi. Sembra che succeda esattamente quello che Spinoza aveva ipotizzato: la sensazione di prendere una decisione consapevole appare non essere altro che un effetto psicologico successivo agli eventi biochimici che hanno già determinato l'esito della decisione. Patrick Haggard neuroscienziato all'University College di Londra, commenta così: "Pensiamo di scegliere, ma in realtà non scegliamo nulla".
Ma se il libero arbitrio è illusorio, cosa resta, per esempio, della responsabilità individuale? Se chi commette un crimine non ha deciso liberamente, dovremmo dovremmo trattenerci dal punirlo? La risposta, ovviamente è no. Il punto più importante, io credo, è il fatto che la nozione di libero arbitrio resta utile proprio perchè non conosciamo le cause microscopiche complesse del nostro comportamento. Il nostro comportamento è di fatto imprevedibile, per la complessità se non anche per gli aspetti quantistici e caotici, della nostra biochimica. La nozione di scelta libera, anche se è una nozione approssimata e basata sull'ignoranza delle cause, resta quindi lo stesso la più efficace per pensare a noi stessi, come voleva appunto Spinoza. Ma tutti noi... anche se messi di fronte all'evidenza di una macchina che prevede in anticipo quale dito decideremo di alzare, possiamo davvero accettare facilmente che il nostro caro libero arbitrio sia in fin dei conti un'illusione? Oppure siamo troppo attaccati al nostro orgoglio di decisori, alla retorica della libertà dello spirito, per accettare l'idea? Spinoza stesso, ci suggerisce la risposta: "Stento a credere che gli uomini possono indursi a riflettere su tutto ciò con equanimità, così fermamente sono persuasi che solo per solo comando della mente il corpo ora si muova ora sia fermo..."